1 febbraio 2000

MANDELA

IL PERDONO AL POTERE
di Pietro Veronese

Ha compiuto 90 anni, il 18 luglio 2008, colui che rimarrà forse il più grande leader in assoluto del XX secolo.

La parabola di un leader davvero eccezionale
L'Africa è raramente presente al cinema e, quando lo è, spesso vi compare in formato cartolina, come i voli di fenicotteri rosa ne La Mia Africa con Meryl Streep e Robert Redford.
E proprio questo, a noi sembra, è il rischio maggiore che corre Nelson Mandela in quest'anno glorioso del suo novantesimo compleanno: l'agiografia, la giubilazione mentre è ancora in vita, l'uso strumentale della sua grandezza.
Il compleanno è un pretesto per fare quattrini, a cominciare dal grande concerto a Hyde Park, a Londra. E all'ombra della figura paterna di Nelson il grande, di Madiba, come viene chiamato, il Sudafrica si avvia l'anno prossimo ad eleggere con Jacob Zuma un Presidente che incarna il tradimento dei valori per i quali Mandela si è battuto una vita intera.

Il giorno in cui liberarono un uomo libero
Lontano ormai da molti anni dalla vita politica, col corpo fiaccato dal morbo di Parkinson e da una lunghissima vita di combattente, Madiba è da tempo costretto al ruolo di icona vivente.
Chi l'ha visto negli anni recenti in una delle sue rare apparizioni pubbliche ne ha avuto il cuore stretto. Manipolato, gestito, pilotato da una ferrea e vorace macchina di pubbliche relazioni, osannato come una qualunque celebrità alla stregua di un divo di Hollywood o di una superstar del rock, lui si presta volentieri, coll'irresistibile sorriso che non è intaccato dagli anni e dalle sofferenze fisiche.
Era sua intenzione dedicare l'ultima parte della vita alla beneficenza, in particolare alla sua fondazione per i bambini e quindi ben volentieri accetta le opportunità di raccolta fondi. Ma, a vederlo da fuori, non c'è più rapporto tra colui che fu per decenni il prigioniero politico più famoso del mondo, l'uomo di cui il mondo ignorava perfino il volto, perché da quasi un trentennio era recluso dietro le sbarre, e questo vecchio bombardato dai flash che agita la mano dal palco, tra le urla dei fan.
È morta per sempre l'emozione di domenica 11 febbraio 1990, quando nel sole dell'estate australe l'uomo senza volto, sul cui aspetto i settimanali americani speculavano da settimane pubblicando improbabili elaborazioni al computer di antiche foto degli anni Cinquanta, apparve infine, mano nella mano con la moglie Winnie, ai cancelli della fattoria-prigione di Paarl.
Sembrò allora che l'indipendenza africana si compisse infine, con la liberazione di quell'uomo, e con essa una più profonda liberazione umana, la vittoria finale in una lotta impari condotta soprattutto con l'arma della superiorità morale e la forza inarrestabile del diritto naturale: tutti gli esseri umani sono creati uguali, indipendentemente dal sesso, dal credo religioso o dal colore della pelle...

Troppo grande per noi umani
Sono passati da allora quasi due decenni. Non possiamo fare torto a Nelson Mandela dell'evoluzione successiva: la riduzione dei valori universali che egli così perfettamente incarna a bene di pronto consumo; la volgarizzazione mediatica che diventa volgarità; l'apparentemente inarrestabile metamorfosi del Sudafrica da Paese-modello, Paese-guida non solo dell'Africa ma di un intero mondo sempre più globalizzato, dunque in teoria sempre più melting pot, a territorio violento, corrotto, dominato da una razza padrona avida e di scarsi principi.
Tutto questo è specchio e frutto dei tempi che viviamo. E in parte, paradossalmente, proprio del fatto che Madiba è davvero un uomo straordinario, forse il più grande leader del secolo che si è da poco concluso. Se il suo insegnamento spirituale non è forse del peso di un Gandhi, però, a differenza del maestro della lotta politica nonviolenta, Mandela ha governato davvero, è asceso dalla cella della prigione alla guida del suo Paese e ha saputo farlo con una saggezza, una lungimiranza politica, una statura morale che non hanno eguali.
Un uomo troppo grande, forse, per noi resto dell'umanità: il suo insegnamento rimane, ma il suo esempio è troppo alto da seguire.

Come Francesco e il lupo
La parabola esistenziale di Mandela è nota, quasi una favola raccontata alle genti.
Dall'infanzia a piedi scalzi nel villaggio, figlio di capi che portava gli armenti a pascolare come un principe-pastore dell'Arcadia, alla precoce militanza antirazzista nelle fila dell'African National Congress, l'avvocatura vissuta come un terreno di lotta, gli arresti, la clandestinità, le successive condanne, la scomparsa dietro le sbarre di Robben Island. Ventisette anni dopo, il ritorno, l'immediato imporsi come un leader naturale e assoluto, la trionfale elezione alla presidenza nel 1994, il ritiro dalla scena cinque anni dopo con un senso della res publica che ha pochissimi altri esempi nella storia dell'Africa contemporanea (vengono in mente solo il tanzaniano Julius Nyerere e il dimenticato generale sudanese Anwar ad-Dahab, che nel 1985 depose senza spargimento di sangue la dittatura di Nimeiri e l'anno dopo, organizzate libere elezioni, scomparve). Due aspetti soltanto sottolineeremo qui.

Il primo è l'uso del perdono come arma (vincente) di lotta politica. L'aspetto più stupefacente dei brevi anni di transizione che trascorsero dalla liberazione di Mandela alla sua elezione furono segnati dalla sua straordinaria capacità di dialogo. Incluso l'Afrikaner Weerstandsbeweging, l'organizzazione di suprematisti bianchi che aveva per simbolo la bandiera uncinata a tre braccia e molti morti sulla coscienza. Mandela parlò col suo capo, Eugène Terre'blanche, come san Francesco col lupo, ottenendo analoghi effetti.
Pochi amano ricordare oggi che alla vigilia del voto del 1994, il primo a suffragio universale nella storia del Paese, numerosi Soloni internazionali andavano predicendo che il Sudafrica sarebbe stato inghiottito da un gorgo di sangue fratricida: la maggioranza nera, si diceva e si scriveva, non era matura per la democrazia. E in effetti la situazione era tesissima e in alcune regioni, segnatamente nel KwaZulu- Natal, aveva tutto l'aspetto di un prodromo di guerra civile. Questo spettro si sciolse al sole della giornata elettorale e moltissimo si deve alla capacità di Madiba di convincere ogni parte politica che nel Sudafrica democratico ci sarebbe stato posto per tutti.
La successiva straordinaria esperienza della Commissione verità e riconciliazione sui crimini dell'apartheid è frutto di questo stesso sentire: più che una cultura politica, un istinto politico, profondamente ancorato nella personalità di Madiba (e del vescovo Desmond Tutu, ma dopotutto Tutu è un uomo di Chiesa e ci si aspetta che il perdono faccia parte del suo, chiamiamolo così, "bagaglio professionale").

Indicibile dolore privato
L'altro aspetto è la dignità straordinaria, davvero regale, con cui Mandela affrontò le sue vicissitudini private. Come poi sarebbe emerso alla luce del sole (e delle deposizioni davanti alla Commissione verità e riconciliazione), durante i lunghi decenni della prigionia del marito la moglie Winnie aveva perso ogni ritegno morale, vivendo nella lussuria, nella violenza, rendendosi colpevole di orrendi soprusi e delitti nei confronti della sua stessa gente.
Dopo la liberazione, mentre questo oscuro passato diventava lentamente di pubblico dominio nelle aule dei tribunali, Nelson fu sempre al fianco di lei. Nella sua prima conferenza stampa, il lunedì 12 febbraio 1990 nel giardino della residenza arcivescovile di Tutu a Città del Capo, alla domanda se avesse rimpianti o rammarichi per tutti quei lunghissimi anni trascorsi in prigione, Mandela rispose: uno solo, non essere stato al fianco della mia famiglia nei momenti del bisogno.
Winnie continuò a tradirlo in maniera spudorata anche adesso che erano tornati a vivere insieme, e fu allora che Nelson (probabilmente con una decisione politica presa insieme ai vertici dell'African National Congress) compì il passo della separazione e del divorzio: Winnie non poteva assolutamente diventare la first lady. Il candidato Presidente ne dette l'annuncio in una conferenza stampa in piedi, leggendo da un foglietto che tirò fuori dalla tasca, chiese che non ci fossero domande perché si trattava di un suo dolore privato, e domande non ce ne furono.
Le successive nozze con Graça Machel, vedova del Presidente mozambicano Samora Machel, hanno tanto il sapore di una romantica storia d'amore (cominciata per corrispondenza, durante la prigionia di lui), quanto di un'accorta alleanza geopolitica. I due si amano e a quanto è dato sapere conducono insieme una serena, affettuosa vecchiaia. Paragonatele alle storie di recenti amori presidenziali qui nella nostra vecchia Europa, sia per contenuto che per forma, e traetene le vostre conclusioni.

Buon compleanno, e lunga vita a Madiba.

Articolo pubblicato su:
http://www.missionaridafrica.org/archivio_rivista/2008_04/artic-madiba.htm