30 maggio 2009

L'Africa ha bisogno di aiuto ?

www.dambisamoyo.comÈ una domanda che non dovrebbe suscitare dubbi, ma si trova ora al centro di un interessante dibattito.
A dire la verità l'aiuto allo sviluppo e in particolare la qualità dell'aiuto, è un tema che periodicamente torna attuale grazie ad articoli o a "esperti" che propongono nuove analisi o nuove indicazioni.
Purtroppo queste discussioni a volte si trasformano in uno scambio di accuse e battute facendo perdere di vista il dato principale: là fuori c'è un continente con quasi un miliardo di persone che cercano faticosamente di entrare in un mondo più giusto e in una vita migliore.
La novità questa volta è data dal fatto che perlomeno c'è un protagonista africano in questo dibattito.
Si tratta di Dambisa Moyo, nata e cresciuta a Lusaka in Zambia, autrice del libro Dead Aid (Penguin, 2009).
Economista formatasi a Oxford e Harvard, Dambisa Moyo ha lavorato per colossi come Goldman Sachs e la World Bank. La tesi di fondo del suo lavoro si può riassumere così: non solo l'aiuto pubblico ai paesi africani non ha portato un significativo miglioramento, ma si è rivelato addirittura controproducente.
Il libro è rimbalzato sui media di mezzo mondo: ne hanno parlato i grandi network CBS, CNN, BBC per non parlare di Newsweek, NYTimes e Time (che ha inserito la Moyo tra i le 100 persone più influenti al mondo).
In Italia? OK: due o tre articoli su Stampa, Repubblica e Sole24Ore.
Il dibattito più acceso si è però sviluppato su internet grazie al fatto che i blog specializzati sono molto dinamici e consentono rapidi commenti e repliche. È anche da questi dibatti che si delineano gli orientamenti per le future politiche di cooperazione.
La Moyo sostiene che dopo 60 anni di cooperazione, con oltre 1000 miliardi di dollari di aiuto pubblico erogato, l'Africa continua a essere povera e senza futuro. Ammette con sincerità che la più parte di questo fallimento risiede nell'inettitudine per non dire nell’avidità e corruzione di molti governanti africani. Ma, aggiunge, l’aiuto così concepito non è efficace: denaro erogato con controlli insufficienti, mancanza di un vero coinvolgimento dei beneficiari, con la prospettiva di continuare in questa direzione senza progettare una vera autosufficienza. In Africa, prosegue, c'è invece bisogno di investimenti privati, posti di lavoro, fiducia dei mercati, stimolo dell’imprenditoria e della società civile: tutte cose che in un accordo bilaterale non sono contemplate. In sostanza – dice la Moyo – la mancanza di controlli e di riscontri fa sì che gli stessi governanti “rapaci” si preoccupino più di raccogliere consenso all’estero che tra i connazionali: del resto il loro potere viene da fuori o tutt’al più dalla pesante burocrazia compiacente che prolifera in quasi tutti gli stati africani. Se invece fosse stabilito un limite temporale dopo il quale la cooperazione venisse sospesa o drasticamente ridotta, allora – conclude l’economista – si faciliterebbe un nuovo atteggiamento più consapevole e un utilizzo più efficace degli aiuti ricevuti.

Trattandosi di una tesi come minimo controcorrente le risposte non si sono fatte attendere. L'attacco più pesante è partito da Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute, docente alla Columbia University, consulente delle Nazioni Unite. Per completezza andrebbe aggiunta al curriculum di Sachs anche l'amicizia con Bono degli U2 (a sua volta criticato dalla Moyo).
Sachs ha polemicamente iniziato il suo articolo, sul giornale online Huffingtonpost.com, ricordando come la stessa Moyo sia stata in realtà beneficiaria di quell'aiuto che le ha consentito di studiare nelle più prestigiose istituzioni mondiali.
Solo mi dispiace che stia cercando di togliere la scala a quelli che si è lasciata alle spalle” affonda Sachs. Ce n'è anche per il Rwanda (il cui presidente Paul Kagame ha elogiato la Moyo sul Financial Times): senza aiuti dall'estero, che sono la gran parte delle entrate del paese, i clamorosi successi in campo sanitario e la sua forte crescita economica terminerebbero rapidamente.
Ha poi proseguito, citando le statistiche più drammatiche, sostenendo come non sia neppure pensabile poter lasciare soli gli africani in queste sfide che invece possono essere vinte con l'aiuto e la cooperazione. Sachs parte dalla situazione presente, che effettivamente non è rosea, e dalle condizioni (anche geografiche) oggettivamente difficili in cui si trovano molti paesi africani.
È intervenuto in “soccorso” di Dambisa Moyo l'economista William Easterly, docente all'università di New York, dal suo blog AidWatch citando i casi in cui (e non sono pochi) la cooperazione tra stati si è rivelata inutile o addirittura truffaldina. Ha inoltre ricordato che il lavoro della Moyo si concentrava principalmente sulla cooperazione economica tra governi africani e occidentali e non sulla cooperazione degli organismi non governativi o missionaria. Queste ultime forme di sostegno, unite alle rimesse degli africani emigrati, sono sempre più importanti ed assomigliano a quello che dovrebbe essere un rapporto paritario e un progetto comune tra Nord e Sud del mondo.
Altro sostegno è giunto dal blog Texas in Africa di Laura Seay, un vero e proprio pensatoio su Africa, sviluppo e cooperazione.
Non sarà facile avere una risposta definitiva e le critiche, se si mantenessero serie e corrette, potrebbero far sviluppare un dibattito efficace.
Resta la domanda di fondo: se la cooperazione e l'aiuto in denaro sono la strada giusta, come mai in tutti questi anni non hanno funzionato ?

10 maggio 2009

Eritrea da record (ma non in atletica)

Eritrea_assetataQualsiasi ricercato sa che durante la latitanza occorre sceglier bene i propri amici. A questa semplice regola non sfugge il comportamento di Omar al-Bashir, presidente del Sudan, nei confronti del quale è stato emesso un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità. Il fatto ha suscitato polemiche e commenti tra esperti di politica e di relazioni internazionali e le diplomazie di mezzo mondo si sono divise invocando ragioni di coerenza o di real politik. Un conto però è esprimere vaghe affermazioni e dichiarazioni di principio e un altro è accogliere il ricercato come un eroe nel proprio paese.
È quanto è accaduto il 30 marzo scorso ad Asmara, in Eritrea, dove il presidente Isaiah Afewerki ha ricevuto con tutti gli onori il suo omologo sudanese.
Per la verità al-Bashir era già stato ospite di Mubarak in Egitto pochi giorni prima (il 25 marzo) ma con toni differenti, anche dovuti al diverso status politico dell'Egitto.
Essere tra i primi ad accogliere il presidente sudanese è solo uno dei tristi primati dell’Eritrea: l’ultimo “record” raggiunto è la possibilità di fregiarsi del titolo di prigione più grande del mondo. È questa l’espressione usata da Human Rights Watch nel rapporto pubblicato il 16 aprile ad indicare come la repressione e il controllo dell’esercito e della polizia renda di fatto l’intera Eritrea un enorme carcere a cielo aperto.

30 anni di guerra contro la vicina Etiopia, la pace faticosamente raggiunta nel 1993 buttata via dopo solo 5 anni quando riprende il conflitto che in soli due anni porta 100mila vittime. Ufficialmente i due paesi combattono per una disputa territoriale di scarsa importanza, in realtà una chiave di lettura del conflitto è costituita dal predominio sulla regione e dall'accesso al mare che attualmente pone l'Etiopia in condizione di sofferenza. Nonostante nel 2002 la commissione costituita dall'ONU e dall'Unione Africana abbia sostanzialmente riconosciuto le ragioni dell'Etiopia, quest'ultima non ha accettato pienamente l'arbitrato e quindi la tensione tra i due paesi è rimasta altissima.
Questa situazione serve però ad Afewerki per mantenere il paese schiacciato da esercito e polizia. Uomini e donne sono costretti a un servizio militare obbligatorio della durata ufficiale di 18 mesi ma che spesso si protrae per molto di più, in condizioni durissime e per una paga misera. Disertare o evitare la coscrizione non è possibile e non rimane che l’esilio (i rifugiati eritrei sono tra i più numerosi al mondo) ma anche questo non è per nulla facile a causa dei durissimi controlli. Per di più chi riesce a scappare in altri paesi africani o in Europa rischia spesso di essere rimpatriato forzatamente. I metodi di repressione e di controllo comprendono torture, detenzioni illegali, vendette sui famigliari dei disertori.
In politica estera, l’Eritrea è isolata anche a causa di interferenze militari indirette portate avanti nei confronti dei paesi vicini. Dispute territoriali (o, meglio, marittime) anche con Gibuti, ad esempio. È inoltre chiaro il coinvolgimento di Asmara nel sostegno all’Unione delle Corti Islamiche salite al potere in Somalia nel 2006, un'azione politica che la contrappone all'Ethiopia, che è invece ha sostenuto il governo federale somalo attualmente in carica.

Anche se il rapporto di HRW è indirizzato alle più importanti istituzioni internazionali, non si vedono nel breve periodo vie d'uscita all'attuale situazione di stallo. Ma la regione del Corno d'Africa è certamente – molto più che in passato – presente nell'agenda delle cancellerie di tutto il mondo.

Fonti: Human Rights Watch, Nigrizia