27 agosto 2009

Kenya Census 2009 (Count me in !)

(Nairobi). “Sono Luo” oppure “Sono Kalenjin”, ecco alcune delle risposte che potrebbero ricevere le migliaia di 'enumerators' reclutati in Kenya per il censimento nazionale che dovrebbe concludersi il 31 agosto.
Un censimento dovrebbe essere una collezione di numeri innocenti eppure questo censimento sta assumento un carattere controverso, sicuramente delicato.
Al sorgere delle prime polemiche i responsabili del KNBS (Kenya Bureau of Statistics) si sono affrettati a chiarire che la domanda sull'appartenenza etnica non è assolutamente obbligatoria e che tra le risposte possibili c'è anche un orgoglioso “I'm Kenyan”.
Ciononostante, trascorsi oltre 18 mesi dalle violenze che hanno accompagnato le elezioni del 2007, la questione etnica è un argomento ancora scottante qui in Kenya.
Oltre 1000 morti, mezzo milione di IDP (Internally Displaced People) costretti per forza o per necessità ad abbandonare le proprie case per trovare una sistemazione più sicura.
I fatti del 2007 si trascinano in maniera velenosa fino ad oggi: la Commissione d'inchiesta Waki ha raccolto prove e tesimonianze e redatto una lista di nomi di responsabili nel gestire e organizzare le violenze post elettorali. La lista, chiusa in una busta (che immaginiamo rossa...) è stata consegnata sin dallo scorso ottobre a Kofi Annan, incaricato di mediare tra le parti. L'ex segretario dell'ONU ha conservato i documenti fino a luglio, sperando che il parlamento kenyano deliberasse la creazione di un tribunale speciale o di una qualche istituzione giuridica che rendesse giustizia dei fatti.
Poi a luglio la svolta: una breve missione a Ginevra, accompagnato da alcuni esponenti del governo, tra cui il ministro della Giustizia Mutula Kilonzo e l'incontro con Luis Moreno Ocampo procuratore della Corte Penale Internazionale al quale è stata consegnata la busta. Ora il Kenya ha tempo fino alla fine di settembre per trovare una soluzione (tribunale speciale o ordinario).
Altrimenti Ocampo, che negli ultimi anni è considerato un pò lo spauracchio dei potenti e violenti dell'Africa, avvierà un procedimento esterno, poichè che il Kenya a suo tempo ha preso parte alla creazione dell'ICC.

Faceva una certa impressione passeggiare per il centro di Nairobi martedì scorso: quasi nessuno per la strada nè sui marciapiedi solitamente affollati di una vasta umanità che spazia dai colletti bianchi dei ministeri, ai turisti e cooperanti europei o americani, fino ai più poveri che cercano ogni giorno un modo per sbarcare il lunario. Uffici chiusi, negozi chiusi, bus e matatu rarissimi e semivuoti. Il 24 agosto è stata infatti dichiarata giornata di vacanza per consentire agli enumerators di svolgere il loro lavoro: diversamente a Nairobi è difficile trovare qualcuno in casa durante le (lunghe) giornate lavorative.

Altre questioni accompagnano il Kenya Census 2009 , ad esempio il fatto che i risultati dell'ultimo censimento, dieci anni fa, non furono mai resi noti.
Fare un censimento in Africa non è facile: nelle zone rurali spesso l'anagrafe non funziona e molti, bambini e adulti, non hanno documenti, ed in ogni caso raggiungere ogni più sperduto villaggio è praticamente impossibile.
Le notizie che vengono raccolte sono inoltre tra le più varie: viene chiesto di che materiale è costruita la casa, quale tipo di gabinetto è utilizzato oppure chi ha dormito in quella casa il giorno precedente.
Il risultato è che gli enumerators impiegano circa 45 minuti per ogni gruppo famigliare.
Fare un censimento è però molto importante, specialmente in Africa: occorre sapere se le politiche di sviluppo sono state efficaci, se e di quanto è cresciuta la popolazione, dove vive e in quali condizioni socio economiche, sopratutto in periodi come questi, quando una forte siccità sta mettendo in crisi diverse aree del paese, soprattutto al nord.
I Masaai si stanno muovendo dai pascoli verso la città per svendere il loro bene più prezioso, il bestiame, a causa della mancanza di acqua. Una vacca (magra) può costare anche solo 8000 scellini (circa 80 euro).
Alcuni dati d'altra parte sono già conosciuti: per esempio la vita media del Kenya, stimata attualmente in 55 anni e la sorprendente distribuzione delle popolazione: dei presunti 40 milioni di Kenyani, oltre la metà ha meno di 19 anni.

Fonti: Nation, Reuters

23 giugno 2009

135 congolesi rapiti dall'LRA

Padre Gianni Nobili è missionario comboniano in Repubblica Democratica del Congo, nella regione della Provincia Orientale. Truppe rwandesi, congolesi e diversi gruppi ribelli operano nel Kivu mentre le zone più a nord sono soggette a incursioni da parte dell'Esercito di Liberazione del Signore (LRA). L'LRA si è spostato dall'Uganda, attraverso Sudan e Repubblica Centrafricana, fino ai confini della RDC. Anche in questo caso dietro le sanguinarie azioni dell'LRA, apparentemente folli, si nascondono manovre di potere e controllo del territorio.
Alla fine, un articolo della Reuters sul rapimento avvenuto alla missione di Dakwa.


Bondo, 16 giugno ‘09

Ciò che da tempo si temeva si è ormai realizzato. I ribelli-banditi del movimento LRA hanno occupato la Missione di Dakwa e stanno avanzando verso la Missione di Ango. La gente si è rifugiata e dispersa nella foresta. Qui a Bondo, che è il centro della Diocesi, stiamo aspettando i parroci delle due missioni per conoscere i dettagli degli avvenimenti. Potete immaginare il livello di apprensione che si sta sviluppando.
Ma quello che non riusciamo a capire è l'atteggiamento di generale rassegnazione di fronte ad una situazione grave sviluppatasi durante lunghi mesi di inerzia totale da parte delle autorità politiche e amministrative. Di questa grave insicurezza e violenza che ha fatto ormai tantissime vittime, non si può e non si deve parlare.
I politici che hanno avuto il coraggio di denunciarlo sono stati zittiti. Tutto il dibattito nazionale sulla sicurezza è focalizzato da mesi sulla situazione dell'est, delle due province del Nord e Sud Kivu. Le strane manovre diplomatiche e militari che hanno portato all’arresto del generale Nkunda e alla rinnovata alleanza tra Congo, Uganda e Rwanda non convincono per nulla gli osservatori più attenti della realtà congolese.
Il presidente Joseph Kabila sta rafforzando la sua rete sempre più fitta di potere politico-economico e non accetta critiche. Qualcuno però ha avuto il coraggio di avanzare seri dubbi sulla sua volontà di controllare ed eliminare il problema di questi banditi disumani, che da anni spadroneggiano dall'Uganda al Sudan e al Congo.
Kabila deve aver offerto al movimento LRA il compito di controllare le frontiere congolesi che si affacciano sull'Uganda, naturalmente dietro adeguata ricompensa. Ora che il potere di Kabila è confermato a livello nazionale (dalle elezioni del 2006) sembra che il presidente non abbia mantenuto le promesse... il risultato logico e comprensibile è l’esplosione di rabbia dell'LRA che si è messo a saccheggiare i villaggi e i centri più sviluppati del Nord-Est della Provincia Orientale.
Dal mese di settembre 2008, la lista delle missioni saccheggiate è lunga e dolorosa: Duru, Faradje, Dungu, Dorma, Banda, Boeli...
Il numero delle persone uccise è dell’ordine di centinaia, a decine di migliaia è salito il numero dei rifugiati interni che hanno dovuto abbandonare i loro villaggi distrutti dai ribelli. Eppure nessuna decisione politica e militare di intervento nella zona è stata presa. C’è chi parla di una agenda non scritta, della decisione dell’autorità centrale di abbandonare l'etnia Zande, (la maggioranza della gente che abita le nostre zone).
E noi siamo qui, testimoni e compagni del doloroso cammino di questo popolo, ferito da anni e anni di violenza che sembra aver dimenticato una storia di conquiste e di vittorie, di alleanze preziose con tanti popoli.
Sembra che siano spariti i capi famosi, gli Avongara che hanno guidato il popolo per secoli, fino all’arrivo dei conquistatori Europei, Belgi, Francesi e Inglesi. Fino alla spartizione del grande popolo in tre diversi Paesi: Sudan, Congo e Repubblica Centrafricana.
Camminiamo con loro, da fratelli e da amici, e condividiamo la loro storia quotidiana. Stateci vicini. Abbiamo bisogno della vostra preghiera e della vostra amicizia per essere fedeli alla nostra missione.

p. Gianni

Vedi anche : Uganda's LRA rebels kidnap 135 Congolese villagers [Reuters]
Fonti : PaneSpezzato.it
Foto : Twende.it

30 maggio 2009

L'Africa ha bisogno di aiuto ?

www.dambisamoyo.comÈ una domanda che non dovrebbe suscitare dubbi, ma si trova ora al centro di un interessante dibattito.
A dire la verità l'aiuto allo sviluppo e in particolare la qualità dell'aiuto, è un tema che periodicamente torna attuale grazie ad articoli o a "esperti" che propongono nuove analisi o nuove indicazioni.
Purtroppo queste discussioni a volte si trasformano in uno scambio di accuse e battute facendo perdere di vista il dato principale: là fuori c'è un continente con quasi un miliardo di persone che cercano faticosamente di entrare in un mondo più giusto e in una vita migliore.
La novità questa volta è data dal fatto che perlomeno c'è un protagonista africano in questo dibattito.
Si tratta di Dambisa Moyo, nata e cresciuta a Lusaka in Zambia, autrice del libro Dead Aid (Penguin, 2009).
Economista formatasi a Oxford e Harvard, Dambisa Moyo ha lavorato per colossi come Goldman Sachs e la World Bank. La tesi di fondo del suo lavoro si può riassumere così: non solo l'aiuto pubblico ai paesi africani non ha portato un significativo miglioramento, ma si è rivelato addirittura controproducente.
Il libro è rimbalzato sui media di mezzo mondo: ne hanno parlato i grandi network CBS, CNN, BBC per non parlare di Newsweek, NYTimes e Time (che ha inserito la Moyo tra i le 100 persone più influenti al mondo).
In Italia? OK: due o tre articoli su Stampa, Repubblica e Sole24Ore.
Il dibattito più acceso si è però sviluppato su internet grazie al fatto che i blog specializzati sono molto dinamici e consentono rapidi commenti e repliche. È anche da questi dibatti che si delineano gli orientamenti per le future politiche di cooperazione.
La Moyo sostiene che dopo 60 anni di cooperazione, con oltre 1000 miliardi di dollari di aiuto pubblico erogato, l'Africa continua a essere povera e senza futuro. Ammette con sincerità che la più parte di questo fallimento risiede nell'inettitudine per non dire nell’avidità e corruzione di molti governanti africani. Ma, aggiunge, l’aiuto così concepito non è efficace: denaro erogato con controlli insufficienti, mancanza di un vero coinvolgimento dei beneficiari, con la prospettiva di continuare in questa direzione senza progettare una vera autosufficienza. In Africa, prosegue, c'è invece bisogno di investimenti privati, posti di lavoro, fiducia dei mercati, stimolo dell’imprenditoria e della società civile: tutte cose che in un accordo bilaterale non sono contemplate. In sostanza – dice la Moyo – la mancanza di controlli e di riscontri fa sì che gli stessi governanti “rapaci” si preoccupino più di raccogliere consenso all’estero che tra i connazionali: del resto il loro potere viene da fuori o tutt’al più dalla pesante burocrazia compiacente che prolifera in quasi tutti gli stati africani. Se invece fosse stabilito un limite temporale dopo il quale la cooperazione venisse sospesa o drasticamente ridotta, allora – conclude l’economista – si faciliterebbe un nuovo atteggiamento più consapevole e un utilizzo più efficace degli aiuti ricevuti.

Trattandosi di una tesi come minimo controcorrente le risposte non si sono fatte attendere. L'attacco più pesante è partito da Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute, docente alla Columbia University, consulente delle Nazioni Unite. Per completezza andrebbe aggiunta al curriculum di Sachs anche l'amicizia con Bono degli U2 (a sua volta criticato dalla Moyo).
Sachs ha polemicamente iniziato il suo articolo, sul giornale online Huffingtonpost.com, ricordando come la stessa Moyo sia stata in realtà beneficiaria di quell'aiuto che le ha consentito di studiare nelle più prestigiose istituzioni mondiali.
Solo mi dispiace che stia cercando di togliere la scala a quelli che si è lasciata alle spalle” affonda Sachs. Ce n'è anche per il Rwanda (il cui presidente Paul Kagame ha elogiato la Moyo sul Financial Times): senza aiuti dall'estero, che sono la gran parte delle entrate del paese, i clamorosi successi in campo sanitario e la sua forte crescita economica terminerebbero rapidamente.
Ha poi proseguito, citando le statistiche più drammatiche, sostenendo come non sia neppure pensabile poter lasciare soli gli africani in queste sfide che invece possono essere vinte con l'aiuto e la cooperazione. Sachs parte dalla situazione presente, che effettivamente non è rosea, e dalle condizioni (anche geografiche) oggettivamente difficili in cui si trovano molti paesi africani.
È intervenuto in “soccorso” di Dambisa Moyo l'economista William Easterly, docente all'università di New York, dal suo blog AidWatch citando i casi in cui (e non sono pochi) la cooperazione tra stati si è rivelata inutile o addirittura truffaldina. Ha inoltre ricordato che il lavoro della Moyo si concentrava principalmente sulla cooperazione economica tra governi africani e occidentali e non sulla cooperazione degli organismi non governativi o missionaria. Queste ultime forme di sostegno, unite alle rimesse degli africani emigrati, sono sempre più importanti ed assomigliano a quello che dovrebbe essere un rapporto paritario e un progetto comune tra Nord e Sud del mondo.
Altro sostegno è giunto dal blog Texas in Africa di Laura Seay, un vero e proprio pensatoio su Africa, sviluppo e cooperazione.
Non sarà facile avere una risposta definitiva e le critiche, se si mantenessero serie e corrette, potrebbero far sviluppare un dibattito efficace.
Resta la domanda di fondo: se la cooperazione e l'aiuto in denaro sono la strada giusta, come mai in tutti questi anni non hanno funzionato ?

10 maggio 2009

Eritrea da record (ma non in atletica)

Eritrea_assetataQualsiasi ricercato sa che durante la latitanza occorre sceglier bene i propri amici. A questa semplice regola non sfugge il comportamento di Omar al-Bashir, presidente del Sudan, nei confronti del quale è stato emesso un mandato di cattura internazionale per crimini contro l’umanità. Il fatto ha suscitato polemiche e commenti tra esperti di politica e di relazioni internazionali e le diplomazie di mezzo mondo si sono divise invocando ragioni di coerenza o di real politik. Un conto però è esprimere vaghe affermazioni e dichiarazioni di principio e un altro è accogliere il ricercato come un eroe nel proprio paese.
È quanto è accaduto il 30 marzo scorso ad Asmara, in Eritrea, dove il presidente Isaiah Afewerki ha ricevuto con tutti gli onori il suo omologo sudanese.
Per la verità al-Bashir era già stato ospite di Mubarak in Egitto pochi giorni prima (il 25 marzo) ma con toni differenti, anche dovuti al diverso status politico dell'Egitto.
Essere tra i primi ad accogliere il presidente sudanese è solo uno dei tristi primati dell’Eritrea: l’ultimo “record” raggiunto è la possibilità di fregiarsi del titolo di prigione più grande del mondo. È questa l’espressione usata da Human Rights Watch nel rapporto pubblicato il 16 aprile ad indicare come la repressione e il controllo dell’esercito e della polizia renda di fatto l’intera Eritrea un enorme carcere a cielo aperto.

30 anni di guerra contro la vicina Etiopia, la pace faticosamente raggiunta nel 1993 buttata via dopo solo 5 anni quando riprende il conflitto che in soli due anni porta 100mila vittime. Ufficialmente i due paesi combattono per una disputa territoriale di scarsa importanza, in realtà una chiave di lettura del conflitto è costituita dal predominio sulla regione e dall'accesso al mare che attualmente pone l'Etiopia in condizione di sofferenza. Nonostante nel 2002 la commissione costituita dall'ONU e dall'Unione Africana abbia sostanzialmente riconosciuto le ragioni dell'Etiopia, quest'ultima non ha accettato pienamente l'arbitrato e quindi la tensione tra i due paesi è rimasta altissima.
Questa situazione serve però ad Afewerki per mantenere il paese schiacciato da esercito e polizia. Uomini e donne sono costretti a un servizio militare obbligatorio della durata ufficiale di 18 mesi ma che spesso si protrae per molto di più, in condizioni durissime e per una paga misera. Disertare o evitare la coscrizione non è possibile e non rimane che l’esilio (i rifugiati eritrei sono tra i più numerosi al mondo) ma anche questo non è per nulla facile a causa dei durissimi controlli. Per di più chi riesce a scappare in altri paesi africani o in Europa rischia spesso di essere rimpatriato forzatamente. I metodi di repressione e di controllo comprendono torture, detenzioni illegali, vendette sui famigliari dei disertori.
In politica estera, l’Eritrea è isolata anche a causa di interferenze militari indirette portate avanti nei confronti dei paesi vicini. Dispute territoriali (o, meglio, marittime) anche con Gibuti, ad esempio. È inoltre chiaro il coinvolgimento di Asmara nel sostegno all’Unione delle Corti Islamiche salite al potere in Somalia nel 2006, un'azione politica che la contrappone all'Ethiopia, che è invece ha sostenuto il governo federale somalo attualmente in carica.

Anche se il rapporto di HRW è indirizzato alle più importanti istituzioni internazionali, non si vedono nel breve periodo vie d'uscita all'attuale situazione di stallo. Ma la regione del Corno d'Africa è certamente – molto più che in passato – presente nell'agenda delle cancellerie di tutto il mondo.

Fonti: Human Rights Watch, Nigrizia

20 aprile 2009

La pirateria in Somalia è sintomo di un problema più grande

Navi attaccate dai pirati111 attacchi nel 2008 al largo della Somalia e nel Golfo di Aden, dei quali oltre la metà si è trasformata in vera e propria cattura delle imbarcazioni e degli equipaggi a scopo di riscatto. Sempre nel 2008 sono state rapite oltre 800 persone e a tutt'oggi non è ancora stato liberato l'equipaggio (tra cui 10 marinai italiani) in servizio sul rimorchiatore Buccaneer, della compagnia ravennate Micoperi.
In questa zona strategica si muovono ogni anno 20.000 navi commerciali.
Francia, Cina, India, Stati Uniti e altri paesi hanno inviato navi da guerra nell'area e questo ha provocato un parziale rallentamento delle operazioni di pirateria, rispetto all'escalation di fine 2008. D'altra parte sembra che il campo di azione dei pirati si stia spostando in acque sempre più lontane dalla terra ferma e dal Golfo di Aden (dunque più a sud). Il cargo americano Alabama è stato sequestrato nei giorni scorsi a circa 300 miglia dalla costa. Le attività di pirateria hanno fruttato lo scorso anno cifre elevatissime: si parla di 80 milioni di dollari ma esistono stime anche più elevate. A questi costi vanno aggiunti anche i maggiori costi di assicurazione, di pattugliamento, i rischi ambientali oltre naturalmente al rischio per gli equipaggi.
Un commento molto chiaro e completo sulla pirateria in Somalia l'ha dato Roger Middleton, consulente e ricercatore della Chatam House, istituto britannico di analisi di politica internazionale, un vero e proprio 'think tank' di riferimento soprattutto per quanto riguarda il commercio e le risorse energetiche.
La traduzione italiana dell'articolo di Middleton è qui.
In ottobre 2008 Chatam House ha pubblicato, sempre a firma di Middleton, un report (scaricabile qui) sul problema della pirateria in Somalia di cui Nigrizia ha curato una traduzione sul numero di dicembre 2008.

12 aprile 2009

Sudafrica al voto: una democrazia matura ?

C'è grande attesa per le elezioni politiche in Sudafrica del prossimo 22 aprile anche se l'African National Congress guidato dal candidato presidente Jacob Zuma si presenta con la certezza di vincere ancora, come è avvenuto in tutte le occasioni dal 1999 ad oggi. I colpi di scena degli ultimi mesi rendono il panorama politico molto fluido e non è scontato che l'ANC riesca a raggiungere i risultati della passate edizioni (sempre oltre il 60%). Lo scorso autunno Thabo Mbeki (14 anni al potere di cui 5 come vice di Mandela) è stato costretto dal suo partito alle dimissioni anticipate. Il motivo: le pressioni politiche esercitate da Mbeki sulla procura generale per far incriminare Zuma, sospettato di diversi crimini tra cui in particolare corruzione e tangenti nell'ambito di una costosissima (quasi 5 miliardi di U$D) fornitura di armi soprattutto dalla francese Thales. Zuma infatti ha già ricoperto incarichi istituzionali durante la presidenza Mbeki.
L'ANC ha sempre raccolto diverse ideologie e correnti: social-democratici, nazionalisti, socialisti e leader tradizionali africani vi hanno trovato una casa politica comune che ha consentito al Sudafrica di uscire dall'apartheid e di diventare paese guida del continente. Negli ultimi anni però l'armonia e il generale consenso verso Mbeki sono diminuiti e da qui è nata la contrapposizione tra due leader profondamente diversi.

Freddo e poco popolare, Mbeki sembra essere più amato dalle classi medio alte, nel mondo finanziario e all'estero (in questi anni il Sudafrica ha giocato un ruolo diplomatico primario), mentre sconta diversi fallimenti interni in campo economico e nella lotta all'AIDS.
Zuma, fiero rappresentante Zulu (non esita a danzare in costume tradizionale), rasenta addirittura il populismo, anche se è occorre dire che è stato un eroe dell'anti-apartheid (scontando 10 anni di prigione con Mandela) e ha enorme consenso tra le masse e dai sindacati. Ha almeno 4 mogli e un numero imprecisato di figli.

Il colpo di scena è avvenuto il 16 dicembre 2008: coloro che nel partito hanno giudicato ingiusto l’allontanamento di Mbeki, hanno dato vita a una nuova formazione politica denominata Congress of the People (COPE) che minaccia di erodere una parte consistente di voti all’ANC.
Questo terremoto politico è nello stesso tempo un segnale positivo e preoccupante.
Da una parte testimonia che il panorama politico può cambiare, e in modo essenzialmente democratico, così come possono cambiare i leader politici, il che non è per nulla scontato in Africa.
D’altra parte il risultato di questa transizione può essere potenzialmente pericoloso per il paese: se non ci saranno ulteriori colpi di scena infatti il Sudafrica avrà un presidente su cui pendono sospetti gravissimi e la cui storia giudiziaria non è conclusa. È di pochi giorni fa infatti (6 aprile) la decisione della procura generale della Repubblica di ritirare le accuse a carico di Zuma, proprio a causa dei sospetti di combine tra una parte dell'ANC e la procura stessa.
Un colpo di spugna su 16 capi di imputazione, tra cui criminalità organizzata, riciclaggio, corruzione e frode. Non si tratta di un proscioglimento, ma la strada per Zuma sembra spianata.

Fonti: Nigrizia, Reuters, Matteo Fagotto

5 aprile 2009

(Lento) cammino di Pace in Kivu *

Ci eravamo lasciati a Natale con la brutta notizia della guerra nella Provincia Orientale del Kivu. Il Generale Nkunda, sicuramente spalleggiato politicamente e rifornito militarmente dal Rwanda, alla fine di ottobre aveva scatenato una ribellione assurda contro il governo centrale di Kinshasa, occupando militarmente parecchie città del Kivu. Risultato: massacri, violenze e due milioni di sfollati nel loro paese.
È stato un brutto momento per il Congo. Con un governo eletto da pochi giorni, una squadra di ministri non ancora affiatata, un esercito nazionale che invece di difendere la popolazione si rendeva lui stesso responsabile di stupri e violenze, il Paese sembrava proprio umiliato e sconfitto. Per tentare di risolvere la crisi i capi di stato dell’Africa dell’Est e della regione dei Grandi Laghi (Uganda, Rwanda, Kenya, Burundi), con la mediazione dei delegati dell’Unione Africana hanno avviato a Nairobi un delicato processo di dialogo, di una lentezza e di una complessità piena di contraddizioni, che solo gli Africani sono capaci di gestire. Mesi di incontri a Nairobi, mesi di scaramucce diplomatiche, di calcoli politici sofisticati, mesi di pressioni internazionali a volte perfino “sfacciate” (come quella della Francia). Tutto sembrava finire nel nulla.
Improvvisamente, in pochi giorni il panorama politico è cambiato e sono successe cose positive impensabili: il 23 gennaio Nkunda è stato arrestato dalle stesse forze rwandesi; gli eserciti del Rwanda e del Congo hanno compiuto operazioni congiunte per eliminare i famigerati Interahamwe, i guerriglieri che infestano l’Est del Congo dal tempo dei massacri avvenuti in Rwanda nel 1994; ancora manovre coordinate tra eserciti del Congo e dell’Uganda per risolvere la pericolosa presenza dei banditi dell’Esercito di Liberazione del Signore (LRA), presenti ormai da parecchio nel territorio congolese.

Mentre il primo obiettivo sembra raggiunto, il problema LRA rimane ancora un mistero e un dramma che sta insanguinando tutta la zona est della nostra provincia orientale. È di pochi giorni la notizia che questi banditi hanno attaccato la zona di Boeli e di Banda, all’estremità della nostra diocesi, e hanno trascinato nella foresta circa trecento persone.
Forte dei successi diplomatici ottenuti per risolvere la guerra con Nkunda all’Est del Paese il presidente Kabila si sta godendo una lunga tournée di gloria nelle città del Kivu. Ma, nonostante le assicurazioni dei vari ministri e parlamentari, molti analisti si domandano se le cavalcate trionfali del presidente Kabila, accompagnato a volte da quello dell’Uganda (Museveni) e del Rwanda (Kagame) siano il ritratto vero della realtà.
Pochi giorni fa non si parlavano nemmeno per telefono. Oggi viaggiano sulle berline scoperte come vecchi amici... Sarà vera pace? E quale prezzo dovrà pagare il Congo ?

* di Gianni Nobili, missionario comboniano nella RD del Congo.

Fonte: PaneSpezzato.it
Vedi anche: Provincie della Repubblica Democratica del Congo

27 marzo 2009

I colpi di stato non passano di moda

Economist Democracy IndexLe ultime tre settimane hanno riportato l'Africa indietro di diversi anni.
Due colpi di stato, due avvicendamenti al potere, nessuna elezione, nessun intervento della comunità internazionale.
Il 2 marzo il presidente della Guinea Bissau Joao Bernardo Vieira è caduto sotto i colpi di alcuni militari che hanno fatto irruzione nella sua villa all'alba.
Il 21 marzo il sindaco di Antananarivo Andry Rajoelina si è autoproclamato presidente del Madagascar giurando di fronte ad una folla radunatasi presso lo stadio della capitale.
Due fatti diversi nello svolgimento (ma anche nella capitale malgascia ci sono stati scontri con oltre 130 vittime) ma che segnalano un deficit di democrazia e di bilanciamento dei poteri in alcuni paesi africani.

Regolamento di conti in Guinea Bissau
Come nei duelli di mafia, dove talvolta i cattivi si eliminano a vicenda, ciò che è successo in Guinea Bissau sembra tratto dalla sceneggiatura di un film. Attentati, esplosioni in città, vendette personali e tradimenti, fino all'epilogo dai contorni barbari e sanguinari. Particolarmente violenti i dettagli dell'agguato: il presidente, uscito solo ferito dalla sua casa, è stato nuovamente colpito e infine barbaramente seviziato e trucidato a colpi di machete.
Impossibile non collegare la morte del presidente con quella, avvenuta poche ore prima, del capo di stato maggiore Tagme Na Waie ucciso da una esplosione che ha praticamente distrutto il quartier generale dell'esercito.
Tutto lascia pensare a una rapida reazione di settori dell'esercito alla morte del loro generale.
Si conclude così la lotta personale tra due protagonisti violenti e assetati di potere, una contesa privata scellerata che ha gettato il paese in una condizione di povertà e incertezza.
«Non stiamo parlando di due Madre Teresa» è la sintesi di Frederick Forsyth intervistato dalla BBC. Lo scrittore britannico, in Guinea Bissau per effettuare delle ricerche per un romanzo, si trovava vicino alla casa del presidente.
Pochi giorni fa lo speaker del parlamento Raimundo Pereira ha preso la guida del paese (come chiede la costituzione) con il benestare degli alti vertici dell'esercito che ribadiscono di non voler interferire ( ! ) nella vita politica del paese.

Golpe al rallentatore in Madagascar
RajoelinaSolo 34 anni, ricco e spregiudicato ex disc jockey, Andry Rajoelina ha iniziato alla fine del 2008 a picconare il potere dell’ex presidente Marc Ravalonama, colpevole di non aver portato lo sviluppo promesso in campagna elettorale, svendendo il paese alle compagnie straniere e alle sue imprese personali.
E’ stato così relativamente facile portare la gente in piazza sperando nella reazione scomposta e violenta del rivale che non si è fatta attendere: gli scontri hanno lasciato sull'asfalto oltre 130 vittime. Poi di colpo l’esercito ha scelto di abbandonare il presidente e Rajoelina, con una accelerazione determinante, ha preso il controllo del parlamento (poi sospeso), dei media e delle istituzioni: i militari per il momento appoggiano il nuovo corso.
Va però sottolineata l'assenza o l'impotenza della comunità internazionale: poche voci, per lo più africane, si sono preoccupate della Guinea Bissau, un paese che anche grazie a questo isolamento è divenuto negli ultimi anni un crocevia di traffico di stupefacenti.
Una reazione più convinta invece nel caso del Madagascar: ufficialmente il coup è stato condannato da Unione Africana, la comunità degli stati del Sud (SADC) capitanata dal potente Sudafrica, per non parlare di ONU e della pesante presa di posizione degli USA che hanno sospeso tutti gli aiuti non umanitari al paese e hanno offerto protezione all'ex presidente.
In questo coro spicca l'assenza del solista: la Francia non sembra particolarmente ostile al cambio di regime: il commento del ministro degli esteri francese sul periodo (24 mesi) entro il quale Rajoelina intende indire nuove elezioni è stato: “too long”.


Fonti: France24, Nigrizia, Reuters
Foto: Reuters, Democracy Index
Vedi anche: http://majority-world.blogspot.com/2009/02/lisola-rossa-si-tinge-di-rosso.html

15 marzo 2009

Il nuovo corso della Somalia


Qualcosa si muove e finalmente sembra muoversi verso la giusta direzione. Sono molte le novità che negli ultimi mesi hanno interessato la Somalia che da 18 anni sembra non trovare pace. La Somalia era tornata tragicamente d’attualità agli inizi del 2006, per l’affermazione militare delle Corti Islamiche che in pochissimo tempo avevano conquistato gran parte del Paese compresa la capitale Mogadiscio.
Seguendo le ultime vicende del Paese verrebbe da dire che è arrivato lo scossone che si stava aspettando.
Nel novembre del 2008, dopo tre tornate di incontri, è stato siglato un accordo a Gibuti, , tra governo e opposizione islamica moderata, portando il Presidente Abdullahi Yusuf Ahmed a rassegnare le dimissioni il 29 dicembre. Yusuf era entrato in contrasto con il premier Nur Hassan Hussein, colpevole di avere fortemente voluto l’accordo che ha portato all’inclusione in Parlamento del movimento islamico moderato, l’Alleanza per la Ri-liberazione della Somalia (ARS), ed il ritiro delle truppe etiopi dal territorio somalo. Ritiro che per la verità non è ancora stato completato visto che l’Etiopia mantiene ancora la presenza militare nella regione di Haari, nonostante il ritiro delle truppe fosse previsto per gennaio. Il coinvolgimento politico dei gruppi islamici è un buon punto di svolta ma non dimentichiamo che gli eredi delle Corti islamiche non sono solo quelli dell’ARS ma anche i più radicali del gruppo Al-Shabab, che al momento rappresentano la parte di opposizione al governo meno controllabile.

Il 31 gennaio scorso il leader di una fazione moderata dell'Unione delle Corti Islamiche, Sharif Sheikh Ahmed, è stato eletto capo del governo federale di transizione (TFG). Sharif, leader dell'ARS, ha sconfitto il primo ministro Nur Hassan Hussein, appoggiato della comunità internazionale, ed il generale Maslah Mohamed Siad, figlio dell'ultimo presidente della Somalia Siad Barre.
Il Presidente Sheikh Sharif Ahmed, ha nominato il nuovo Primo Ministro, Omar Abdirashid Ali Sharmarke che ha ricevuto una larga approvazione del Parlamento somalo. Sharmarke, ex diplomatico, è un rappresentante del clan Darod proprio in rispetto della carta federale di transizione somala secondo cui il Presidente, il Primo Ministro ed il Presidente del Parlamento devono appartenere a tre clan dominanti diversi. Nel frattempo il nuovo governo somalo ha approvato l'instaurazione della sharia, la legge coranica, in seguito alle pressioni ricevute da parte di una delegazione di mediatori di Arabia Saudita, Qatar, Kuwait e Sudan.
Gli Stati Uniti, tra uno scetticismo diffuso, stanno promuovendo presso l’ONU una risoluzione per il dispiegamento di una forza di pace in Somalia, che sostituisca l'attuale missione dell'Unione Africana Amisom. Tale risoluzione prevede anche un sollecito ai paesi africani ad aumentare l’attuale contingente presente nel paese, per portare agli 8000 uomini previsti i soli 2600 presenti al momento sul territorio.

Fonti: Nigrizia, Irin, APCOM
Foto: Alessandro Vincenzi - Somalia Bersaglio Innocente - MSF

8 marzo 2009

«They can eat it»

Forse sarà ricordato nei libri di storia: il mandato di cattura emesso contro il presidente del Sudan Omar al-Bashir per quanto sta accadendo da 6 anni nella regione del Darfur è un fatto senza precedenti.
La richiesta di arresto è stata presentata a luglio 2008 dal procuratore generale dell' International Criminal Court (ICC) Luis Moreno Ocampo ma solo pochi giorni fa, il 4 marzo, la corte si è pronunciata in senso favorevole.
L'ICC ha sede all'Aia ed è stata istituita nel 2002 con il cosiddetto Trattato di Roma a cui tutt'oggi aderiscono 108 stati, tra cui purtroppo non figurano alcuni "pezzi grossi" come Stati Uniti, Cina, India, Russia, Israele.
Le Nazioni Unite chiesero nel 2005 all'ICC di investigare sulla situazione in Darfur ed ora che si è giunti a questo primo risultato sarà nuovamente l'ONU a dover prendere delle decisioni diplomatiche ed operative.
Il Sudan vive praticamente in guerra "latente" da circa 30 anni: non si è neppure fatto in tempo a festeggiare la pace siglata nel 2005 tra il ribelli del Sud e il governo centrale che già si era aperto un altro durissimo fronte nella regione occidentale del Darfur.
Gli episodi documentati e contestati al presidente comprendono assassini, stupri, torture: crimini contro l'umanità compiuti non tanto dalle truppe regolari quando da milizie paramilitari messe in campo da Khartoum.
Le stime più accreditate parlano di almeno 300mila morti, 2 milioni e mezzo di profughi oltre alla distruzione di villaggi, pozzi e campi coltivati in una regione poverissima e in cui le condizioni di vita e ambientali sono già molto dure.
La reazione del governo di Khartoum non si è fatta attendere: ben 13 sono le organizzazioni internazionali a cui è stato immediatamente revocato il permesso ad operare nel paese. Tra queste ci sono alcune ONG di primo piano come Oxfam, Medici Senza Frontiere, Save The Children e molte altre che operano in Darfur in forma privata o su mandato ONU.
Si stima che in breve tempo oltre un milione di persone rischieranno di restare senza acqua e cibo mentre la mancanza di servizi sanitari di base riguarderà almeno un milione e mezzo di persone.
Anche la diplomazia internazionale ha reagito: purtroppo le grida più forti si sono levate contro la decisione dell'ICC, accusata da al-Bashir di neocolonialismo per interferire nella politica di una paese sovrano e per avere indirizzato le proprie indagini solo verso africani.
Cina, Iran, molti paesi africani e organizzazioni come l’Unione Africana e la Lega Araba si sono lamentate della decisione dell'ICC chiedendo quanto meno una sospensione della richiesta di arresto in modo da permettere il proseguimento dei colloqui di pace. Al contrario il resto della comunità internazionale non è stato altrettanto pronto e deciso dimostrando ancora una volta paura e divisione di fronte alle questioni di salvaguardia dei diritti umani e della difesa del diritto internazionale.
Al di là delle reazioni diplomatiche, molti commentatori internazionali hanno sottolineato che l'atto d'accusa dell'ICC, pur essendo corretto nella forma, è sbagliato nei tempi e nelle modalità, in quanto rischia di complicare una situazione già di molto compromessa. Difficile immaginare l'effettiva cattura del leader sudanese, ma occorre comunque sottolineare che questa incriminazione costituisce un unicum nel diritto internazionale che potrebbe aprire nuovi scenari in contesti tradizionalmente difficili: al-Bashir è infatti un leder politico di primissimo piano, nel pieno dei suoi poteri, una figura certamente diversa (anche se forse non meno colpevole) di "colleghi" obiettivamente poco difendibili e già accusati in passato dall'ICC.
Tra questi ad esempio troviamo Charles Taylor, ex presidente della Liberia (arrestato nel 2006), il leader politico-militare della R.D.Congo Jean-Pierre Bemba (arrestato nel 2008) o ancora il famigerato e sanguinario Joseph Kony, comandante dell'LRA nel nord Uganda e tuttora in libertà.

In questi giorni nel frattempo proseguono i bagni di folla di al-Bashir: in uno degli ultimi comizi ha affermato che il mandato di arresto per lui non ha valore e che coloro che lo hanno scritto "se lo possono anche mangiare".


Fonti: ICC, Nigrizia, France24
Vedi anche: African Arguments

2 marzo 2009

Il FESPACO compie 40 anni


40° compleanno per il FESPACO, il Festival Internazionale di Cinema di Ouagadougou, la più grande e più importante rassegna di cinema in Africa.
FESPACO (che ha cadenza biennale e significa Festival panafricain du cinéma et de la télévision de Ouagadougou) si concluderà l'8 marzo e presenterà lungometraggi, corti e documentari provenienti da diversi paesi Africani tra cui Algeria, Cameroun, Etiopia, Guinea, Niger, Egitto, Marocco, Mozambico, Sudafrica, Zimbabwe e altri ancora, oltre ovviamente al Burkina Faso.
Il festival ha inoltre un respiro internazionale e sono presenti anche opere da tutto il mondo: spesso artisti di origine africana trovano più facilmente sbocco all'estero sia in termini di finanziamenti e opportunità tecniche che per quanto riguarda le occasioni di confronto con il pubblico.
Un caso recente, ad esempio, è quello di Teza di Hale Gerima, una coproduzione Etiopia-Francia-Germania, recentemente premiato dalla giuria di Venezia ed ora in gara al FESPACO.
Presenti 128 opere e numerose altre fuori concorso per un totale di oltre 300 pellicole in un festival che, secondo le parole del direttore Michel Ouedraogo, in questa occasione vuole fare le cose in grande, come accade in manifestazioni cinematografiche più ricche ma non per necessariamente più blasonate.

Questa è la prima edizione dopo la scomparsa di Sembène Ousmane, uno dei fondatori del FESPACO, morto nel giugno del 2007, che verrà ricordato con una speciale retrospettiva.
Ci sarà anche un omaggio a Sotigui Kouyaté, 73 anni, premiato poche settimane fa come miglior attore con l'Orso d'Argento all'ultimo Festival di Berlino per London River, del franco-algerino Rachid Bouchareb.
Infine un piccolo spazio anche per l'Italia, presente fuori concorso con due opere: Amour, Sexe et Mobylette (in realtà una produzione francese per la regia di Maria Silvia Bazzoli e Christian Lelong) e Come un uomo sulla terra di Andrea Segre.
Il primo è un film-documento ambientato in una piccola cittadina del Burkina Faso durante i giorni che precedono la festa di San Valentino.
Il secondo è un vero e proprio reportage sulla condizione dei migranti che, provenienti da ogni parte d'Africa, attraversano il territorio Libico nella speranza di raggiungere l'Italia e l'Europa.
Alla proiezione saranno presenti il regista Andrea Segre e il giornalista Gabriele Del Grande, curatore dell'osservatorio sulle vittime dei fenomeni migratori Fortress Europe.

Fonti: FESPACO

24 febbraio 2009

L'Isola Rossa si tinge di rosso


120 morti in Madagascar, a causa della dura contrapposizione tra Rajoelina sindaco di Antananarivo e il presidente Ravalomanana.
Due personaggi carismatici e intraprendenti: entrambi molto ricchi e con forti interessi nel campo industriale e dei media, entrambi giovani e spregiudicati (34 anni il primo, 58 il secondo), entrambi proclamano di agire nell'interesse del paese.
Ravalomanana sembra vittima della sua stessa strategia grazie alla quale nel 2002 riuscì a destituire il discutibile predecessore attraverso le proteste di piazza e manovrando abilmente i media. Da alcuni mesi il giovanissimo sindaco della capitale sta scuotendo l'opinione pubblica del paese chiedendo le dimissioni del presidente.
L'accelerazione degli eventi e' impressionante: a dicembre una intervista all'ex presidente Ratsiraka sulla televisione di proprietà del giovane sindaco scatena le ire di Ravalomanana che decide la chiusura del canale.
Il malcontento cresce e il 26 gennaio le proteste sfociano in saccheggi (il presidente è padrone di una importante catena di supermercati) e repressioni violente: oltre 70 i morti. La protesta non si ferma e nella capitale negozi, scuole, trasporti pubblici sono fermi.
L'ultimo atto, mentre gli scontri di piazza provocano ulteriori vittime, è accaduto con la destituzione del sindaco ribelle dai suoi poteri, l'arreso di 6 leader dell'opposizione e la rapida sostituzione del ministro della difesa che si era dimesso per protesta.
Dal canto suo Rajoelina ha autonominato 4 nuovi ministri e ha annunciato che chiederà al parlamento di destituire il suo rivale.
Al di la' del casus belli, ad essere sotto accusa è la politica del presidente Ravalomanana, accolto come liberatore e rieletto con un secondo mandato nel dicembre 2006.
Il presidente è accusato di non aver cambiato sostanzialmente le condizioni di vita dei Malgasci, di aver sottratto soldi pubblici, utilizzati addirittura per l'acquisto di un boeing personale, e di aver stretto accordi imbarazzanti con le multinazionali straniere in nome del mercato e del neoliberismo.
Di recente la Daewoo si è aggiudicata l'affitto per 99 anni di una quantità enorme di terra (circa 1/3 della superficie coltivabile) da dedicare alla coltivazione intensiva di mais e olio di palma.
L'ONU e l'Unione Africana hanno inviato rappresentanti che hanno incontrato (separatamente) i due contendenti. L'obiettivo è quello di non far precipitare la situazione, fatto che precipiterebbe il paese nel caos spalancando le porte a una crisi economica e sociale ancor più grave.

Fonti: Nigrizia, BBC

22 febbraio 2009

Oltre 3000 le vittime del colera in Zimbabwe


Si stima che circa 3 milioni di persone abbiano lasciato lo Zimbabwe verso il Sudafrica in seguito alla grave crisi economica e sanitaria che ha colpito il paese.
Si tratta di un esodo straordinario mai accaduto prima in un paese non in guerra.

I dati sono impressionanti: oltre 3000 vittime accertate, un numero di malati superiore a 80000, l'aspettativa di vita scesa a 34 / 37 anni a causa della prevalenza di infezioni da HIV (1 su 5 tra la popolazione adulta), malnutrizione e crollo del sistema sanitario nazionale.

Il paese proviene da una crisi economica di enormi proporzioni causata da un drammatica impasse politica: le ultime elezioni che sembravano aver socchiuso uno spiraglio per un ricambio al potere, si sono concluse con una sorta di pareggio.
Il presidente Robert Mugabe (85 anni compiuti ieri, eroe dell'indipendenza nel 1980), si è inimicato la quasi totalità della comunità internazionale, ha condotto alla bancarotta un paese un tempo relativamente prospero esercitando in maniera spregiudicata il potere politico, poliziesco e giudiziario.
Solo pochi giorni fa, dopo un lungo braccio di ferro elettorale, il leader dell'opposizione Morgan Tsvangirai ha ottenuto la nomina a primo ministro e una parte di potere amministrativo.

Economisti di tutto il mondo concordano nello stimare il tasso annuo di inflazione superiore al centomila percento. Questo significa che i prezzi possono raddoppiare in pochi giorni. Il governo risolve il problema emettendo nuove banconote di taglio improbabile (100mila miliardi di zim-dollars, pari a 20 dollari americani) e eliminando periodicamente diversi zeri.
L'IRAQ, per fare un paragone, ha un tasso di inflazione annuo del 60%.
Un altro dato macro economico forse oramai di scarso valore in un paese con l'economia al collasso, è quello relativo al PIL che è sceso dai 200 dollari del 1996 ai 6 dollari del 2007.
Durante la scorsa estate l'isolamento politico si è tradotto nel blocco degli aiuti imposto dal governo alle organizzazioni umanitarie. Con l'emergenza colera gli aiuti sono stati riammessi alla fine dell'estate ma la situazione sanitaria e le scorte alimentari restano uno dei maggiori problemi del paese.
L'infezione inoltre sembra stia iniziando a propagarsi nelle regioni confinanti di Malawi, Mozambico e Sudafrica aggiungendo un ulteriore motivo di preoccupazione.

Purtroppo la comunità internazionale non sembra in grado di fare qualcosa: l'impressione è che si stia attendendo l'implosione dello Zimbabwe (ma la crisi economica e politica dura da almeno 7 anni) prima di intervenire.
In Italia l'interesse dell'opinione pubblica è inesistente: negli ultimi 30 giorni il volume di notizie sul web relative al paese africano non è neppure lontanamente comparabile con le notizie circolate su Gaza e la crisi mediorientale.



Fonti: Medici Senza Frontiere, WHO, Guardian, Google